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Il teatro come incontro

“Teatroterapia è recupero della spontaneità, è rispondere alle mie spinte interne, è ritrovare equilibrio e flessibilità”12273796_1653059964947186_5136035201453070417_o

Nel nostro modo di fare counselling il teatro ci permette di attivare e rappresentare nello spazio scenico dinamiche interne altrimenti difficili da decifrare. Il teatro serve a svelare: la persona entra in scena pensando di “recitare” il personaggio e si ritrova a personificare se stessa, a mettere in atto le proprie dinamiche relazionali che conosce solo in parte e delle quali spesso, nella vita, non ha potuto misurare gli effetti. L’uso del corpo è un linguaggio non verbale che consente di portare in superficie ed esprimere più nettamente il vissuto emotivo attraverso l’azione, la voce, la parola. Il palcoscenico è metafora del “palcoscenico interiore” abitato da personaggi che discutono, litigano, si nascondono alla vista, chiamati a prendere forma.

Proverò a descrivere il processo che avviene in questa integrazione tra tecniche teatrali e gestaltiche. Normalmente in ogni incontro c’è una fase di attivazione corporea. L’attenzione al corpo che ogni partecipante è invitato ad avere durante gli esercizi permette di sperimentare un fenomeno importante, cioè il fatto che la nostra quotidianità è popolata di reazioni automatiche: piccoli movimenti, gesti, modi di fare, intonazioni della voce, di cui spesso non ci rendiamo nemmeno conto. Alcune di esse sono talmente familiari da far parte della nostra identità, al punto che ci caratterizziamo attraverso di loro. Continua a leggere “Il teatro come incontro”

Il vuoto come necessità

Il vuoto è un luogo scomodo e stimolante da abitare: induce a lasciare andare il superfluo, incontrare noi stessi, trovare nuove strade.
In questo periodo di emozioni difficili, di incertezza sul futuro, di sgomento per aver smarrito le certezze di una normalità che ormai appartiene al passato, ho vissuto in prima persona l’esperienza del vuoto, come forse molti di noi e ho trovato questo luogo familiare, già conosciuto in particolare facendo teatro di improvvisazione. Non ho riscontrato nessuna differenza, se non che in scena è possibile uscire da questa sensazione in ogni momento, ma nella vita no.
Ho pensato di parlare delle qualità del vuoto, una parola che immaginiamo priva di requisiti e caratteristiche, ma che invece ha tutt’altra valenza. Innanzitutto, ho trovato il mio vuoto grazie al silenzio, una privazione dai rumori di fondo del mondo; chi vive in città probabilmente ha notato, durante il lockdown, la scomparsa del rumore del traffico e l’apparizione di altri suoni sullo sfondo, normalmente impercettibili: il vento, il canto degli uccelli, i dialoghi tra le persone. Inoltre, la separazione forzata dagli altri mi ha costretto a stare con me, probabilmente la compagnia più difficile che potevo sperare di avere. Continua a leggere “Il vuoto come necessità”

Della resilienza, ovvero abbracciare la sordità

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[Elona Marku, poetessa sorda impegnata a segnare una poesia in Lis, Lingua Italiana dei Segni]

Che l’utilizzo della LIS da parte di persone sorde – e udenti – generi cultura, identità e senso di appartenenza, è cosa fin troppo nota e ormai accettata da chiunque si occupi dell’argomento.
Quello che mi interessa affrontare in questo articolo è il rapporto tra la LIS – intesa come lingua e cultura –, l’arte e la condizione di deficit auditivo, che non può essere negata come portatrice di difficoltà per chi ne è colpito.
Ciò che intendo dimostrare è come la condizione di sordità, se affrontata in un certo modo – che potrei definire artistico o più in generale “culturale” –, non solo permette di trasformare una condizione di sofferenza in un’occasione di conoscenza – in una parola potremmo dire nell’operare la “resilienza”, che non nega la sofferenza ma la accetta e la rielabora –, ma diventa anche momento di integrazione.
Vorrei tentativamente mostrare come il caso della cultura sorda sia o potrebbe diventare un modello di riferimento in cui la “diversità” ha assunto valore positivo, creando un’interazione che mira a diventare paritaria con la cultura dominante. In questo senso mi pare che andrebbe rivalutata proprio come paradigma di integrazione anche per altri casi di dialogo tra culture e condizioni diverse. Continua a leggere “Della resilienza, ovvero abbracciare la sordità”

La costruzione dell’empatia

“Si può parlare di pensiero libero e personale senza la capacità di accettare il pensiero degli altri?”.

Inizia così un interessante articolo comparso nel numero di giugno 2016 sulla rivista Mente & cervello, un mensile edito da Le Scienze.

L’articolo parla della costruzione, in età infantile, di quella che comunemente viene chiamata empatia, anche detta “senso dell’altro”. La prima forma di empatia è affettiva e si manifesta tra il primo e il secondo anno di vita, quando il bambino inizia a identificare le emozioni dell’altro, approvandole o disapprovandole.

In seguito, verso i quattro anni e mezzo, il bambino sviluppa la capacità di apprendere le credenze e i desideri delle altre persone e di immaginarne le intenzioni e anticiparne i comportamenti. È quindi un processo cognitivo, non più emozionale. Infine, verso i 9 anni, incomincia a essere in grado di adottare intenzionalmente il punto di vista di un’altra persona, sul piano emozionale come su quello emotivo. Significa che da una posizione autocentrica ne assume una allocentrica, basata su un punto di vista esterno. È l’inizio del senso morale e di giustizia che permette di provare empatia non solo per la nostra cerchia familiare ma anche verso completi estranei, verso i quali si prova però un senso di immedesimazione.

È il motivo per cui ci sono esseri umani che lottano per i diritti umani di persone che non vedranno mai, per es. i migranti arrivati sulle nostre coste di cui tanto si parla da qualche anno a questa parte. Senza la capacità dell’uomo di sviluppare questo senso dell’empatia non esisterebbero la Carta dei Diritti Umani, le Convenzioni di Ginevra, l’UNHCR (Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati) e le miriadi di associazioni che si occupano di diritti umani, promozione sociale, sensibilizzazione nelle scuole. Probabilmente non esisterebbe nemmeno SEMI! Continua a leggere “La costruzione dell’empatia”

Caucasici e banane

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La ragazza ha una trentina d’anni e un aspetto decisamente caucasico, come dicono nei telefilm polizieschi. Il mio sguardo da europeo del sud la riconosce subito come familiare, grazie al prezioso dono del pregiudizio: agita le mani con delicatezza e parla un inglese monocorde e preciso, senza strascichi, una manna per me che non lo capisco tanto bene. Ci chiede i nomi e ci descrive il percorso che faremo insieme, mentre scommetto con me stesso che probabilmente è spagnola o francese.

Sono venuto fin qua per diversi motivi, uno dei quali è mettere alla prova il mio pregiudizio, questa specie di misurazione anticipata dell’estraneo, la necessità di adattare l’ignoto a un profilo riconoscibile, a una sagoma decifrabile. Il pregiudizio fa parte della natura umana e non serve essere antropologi per capirlo: le mamme insegnano ai bambini a non accettare caramelle dagli sconosciuti, chiunque essi siano, cioè ad avere un pregiudizio negativo su tutti quelli che non sono “familiari”. Mi pare un’idea sana, di base. Solo che poi tendiamo ad applicarla a tutto, nella speranza di decodificare il mondo con uno schema preconfezionato. Forse l’unica cosa sensata che possiamo fare è mettere alla prova i nostri pregiudizi, misurarli, sconfessarli, insomma riderci un po’ sopra. Come fa la ragazza caucasica quando parla delle banane gialle. Continua a leggere “Caucasici e banane”

Festina lente

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La domenica mattina

Il signor Cesare era molto abitudinario. Ogni domenica si alzava tardi, girellava per la casa in pigiama e alle undici si radeva la barba, lasciando aperta la porta del bagno.
Quello era il momento atteso da Francesco, che aveva solo sei anni, ma mostrava già molta inclinazione per la medicina.
Francesco, infatti, prendeva il pacchetto del cotone idrofilo, la bottiglietta del disinfettante, la busta dei cerotti, entrava in bagno e si sedeva sullo sgabello ad aspettare.
Che c’è? – domandava il signor Cesare, insaponandosi la faccia con la schiuma da barba
Francesco si torceva sul seggiolino, senza rispondere.
Dunque?
Be’ – diceva Francesco – può darsi che tu ti tagli. Allora io farò la medicazione.
Già! – diceva il signor Cesare.
Ma non tagliarti apposta come domenica scorsa – diceva Francesco, severamente, – altrimenti non vale. Continua a leggere “Festina lente”

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